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la valigia dei ricordi

Parole disattente

di Ornella Ventura

Dall’esordio della nostra presenza su questa rivista nelle rubriche che, in sequenza, proponiamo ogni mese, ci ha guidato un tema declinato nei diversi argomenti che affrontiamo settimana dopo settimana. In aprile abbiamo introdotto la riflessione sui tempi della vita e della cura. In maggio abbiamo approfondito la riflessione sul tempo e sulle differenti interpretazioni del tempo da parte dei diversi soggetti di cura. In giugno abbiamo parlato del pensiero divergente e della creatività. In luglio vi proponiamo un tema fondamentale in tutti i contesti di vita degli esseri umani e particolarmente delicato nella relazione curante-curato: nelle rubriche di questo mese il filo conduttore sarà l’uso delle parole.

Auguriamo a tutti una buona lettura ed un’estate serena.

Nella nostra valigia dei ricordi oggi mettiamo parole disattente

La testimonianza è di una collega; ce ne ha fatto dono come madre, come caregiver.

Solita giornata di esami in ospedale, prelievi ematici di cui F. ha il terrore. Negli anni abbiamo affrontato diversi approcci per controllare la paura degli aghi, del disinfettante, del laccio emostatico sempre troppo stretto per le sue piccole braccia. Oggi c’è una novità nella routine di controlli: la mia bimba deve sottoporsi ad un controllo ecografico dell’apparato urinario.

Durante l’esame mi viene chiesto dall’ecografista se abbiamo escluso la possibilità di un’ereditarietà, sottoponendoci a controlli genetici e approfondimenti strumentali. Nessuno mi aveva mai prospettato questa opportunità. I medici hanno sempre fatto risalire i problemi renali di F. all’asfissia durante la nascita.

Quando ritorniamo nel reparto di nefrologia, chiedo al medico - che conosce la storia clinica di mia figlia fin dall’inizio - se effettivamente dobbiamo fare indagini diagnostiche più approfondite rispetto all’ereditarietà.

Il nefrologo non mi risponde, si limita ad aprire il referto dell’esame ecografico, solo dopo averlo letto dice: È solo un rene più brutto, non perfetto. F. non capisce cosa stia dicendo il medico, guarda la punta delle sue scarpe.

Percepisco la sua paura, neanch’io ascolto più nulla se non il battito dei nostri cuori. I nostri respiri spaventati ci isolano da ciò che ci circonda. Abbraccio mia figlia. Rivolta al medico dico: L’importante è che funzioni, che faccia il suo lavoro. E il suo rene funziona perfettamente.

F. è abituata all’ospedale, ai controlli periodici. Negli anni ha creato un suo mantra con parole coraggiose, come lei le definisce. Questo mantra recita: Guardo la mia mamma e tutto passa.

Oggi è diverso. Il suo mantra non riesce a proteggerla, non è sufficiente. Mi prende la mano, piangendo mi dice: mamma andiamo a casa, non voglio stare qui, Il medico ci saluta, dopo averci dato l’appuntamento per la visita successiva. Non dice nulla a mia figlia. Cosa pensa delle sue lacrime? Immagina la sua paura?

F. è tornata a scuola, in un compito in classe ha scritto: a volte vorrei che la mia mamma fosse la mia infermiera, perché lei sa sempre come dirmi le cose. Me le fa capire anche quando sono difficili. Non mi fa avere paura e non dice che parti del mio corpo sono brutte.

Sono la caregiver di una bambina affetta da patologia cronica. Conosco la paura, l’inadeguatezza, la fatica. Sono infermiera, conosco l’importanza di una comunicazione buona. Conosco le fragilità emotive delle persone malate, dei loro famigliari. So che è un esercizio quotidiano quello dell’ascolto. So che esiste il tempo di relazione come tempo di cura.

Da madre, invece, spero che ogni operatore sanitario possa sentire il desiderio di sviluppare competenze emotive e relazionali per saper parlare con una bambina di 10 anni senza spaventarla.

Spero che i miei colleghi si innamorino del potere delle parole: attente, autentiche, coraggiose. A volte crude, ma sempre richieste, mai urlate, ma condivise, ascoltate. Parole che ogni giorno riscrivo attraverso lo sguardo di chi assisto. Parole da custodire, da reinventare, da saper usare.

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