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Editoriale

Morire con l’ambulanza

di Giordano Cotichelli

È quasi l’ora di pranzo e sto tornando a casa lungo la superstrada SS 16 da Ancona a Jesi. Poco dopo essere entrato in Vallesina un’auto della Polizia, ferma sul bordo destro, annuncia la presenza di un incidente. Fortunatamente non piove, il clima è sereno e la strada corre via bene. Forse l’incidente è già stato risolto. Forse non è niente di grave. Poi, qualcosa all’orizzonte comincia a notarsi. All’altezza dell’uscita per Chiaravalle si intravede uno strano assembramento di persone e mezzi, e l’inusuale presenza di un’autogru. Il braccio giallo del mezzo pesante anticipa la gravità dell’accaduto. Poi, improvvisa quanto drammatica, appare la sagoma di un camion rovesciato sul lato sinistro. Altro, non riesco a vedere anche se non passerà molto tempo dal momento in cui che verrò a conoscenza del resto.

Troppo spesso si perde la vita a bordo dei mezzi di soccorso

Incidente ad Ancona del 28 novembre 2022: un camion, ribaltandosi, schiaccia un'ambulanza sul lato opposto della carreggiata.

Notiziari e social nel giro di poco parleranno della morte dell’autista 28enne di un’ambulanza - Simone - e del paziente 83enne – Cosimo -, schiacciati dal rovesciamento di un camion che proveniva dal lato opposto.

Qualche messaggio su WhatsApp confermerà poi come da colleghi e volontari, l’autista dell’ambulanza fosse conosciuto e apprezzato.

Seguiranno comunicati di cordoglio e vicinanza, da parte del variegato mondo del volontariato sanitario e non solo. Messaggi che rimbalzano dolore e lutto perché non si può morire in strada mentre si lavora, o si viaggia per motivi di salute. Non si può, e non si deve morire in strada mai, per nessuna ragione, anche se il teatro dell’assurdo della nazione italica è sempre più la rappresentazione di una tragedia collettiva che sembra non aver fine.

Qualche centinaio di chilometri più a sud altre vittime da piangere, quelle degli smottamenti di Ischia. Sono passati poco più di due mesi dall’alluvione nell’anconetano e nel pesarese che le conseguenze nefande dell’opera umana - e di condoni governativi, degli appalti criminogeni e della povertà abitativa - tornano a mietere vittime. L’Italia è ormai il paese di quei sommersi e dei restanti – pochi – salvati di cui parlava Primo Levi; la definizione si adatta bene all’oggi per sottolineare che la situazione è così scaduta che non c’è più pace neanche fra chi si impegna a salvare vite.

L’ambulanza schiacciata nell’anconetano può essere vista come una tragica fatalità, se si amassero le favole e le fandonie di ogni tipo. Ma se si allunga lo sguardo verso un orizzonte più ampio si scopre come sulle strade, a bordo dei mezzi di soccorso, purtroppo, si rischia la vita in maniera oltremodo inaccettabile. E troppo spesso la si perde pure.

Già nel 20161 veniva sottolineato come l’aumento di incidenti stradali a carico degli automezzi di soccorso fossero in aumento rispetto al 2014 con 127 episodi (fino al mese di agosto, al 31 dicembre se ne aggiungeranno altri 7), con 91 persone (pazienti e sanitari) rimaste ferite o uccise (7). Dati in crescita stando ad una successiva rilevazione2 riguardante il 2017 con un balzo fino a 159 incidenti, con 110 feriti e 10 morti.

Il quadro globale viene offerto dal sito nazionale del Co.E.S (conducenti emergenza sanitaria)3:

Quando una trentina di anni fa circa è iniziata la destrutturazione della sanità pubblica italiana, partendo dalla chiusura dei piccoli ospedali, la scusante principale che fu adottata, per sedare animi e rispondere confusamente ad angosciate domande, fu che non c’erano soldi abbastanza e che quindi bisognava organizzare le scarse risorse.

Una delle argomentazioni balzane utilizzate sosteneva che non si può avere “tutto da tutte le parti”. Inutile attrezzare di una TAC tutti gli ospedali, anche i più piccoli. L’importante era averne una, ben funzionante, cui accedere facilmente spostando il paziente mediante le ambulanze da un presidio all’altro. Fu così che da mezzi di soccorso le ambulanze e le varie associazioni di soccorso, si sono trasformate sostanzialmente in mezzi privati di trasporto sanitario: per una tac, un esame, un posto letto, una visita. Per tutto.

Nella sostanza l’aumento progressivo del traffico delle ambulanze sulle strade potrebbe essere considerato come un indicatore del progressivo svuotamento di servizi e reparti dei presidi sanitari minori, fino alla loro chiusura. E questo, in un paese in cui il traffico su gomma si è affermato come unica risposta al crescere dei trasporti, specie a fronte dei tagli subiti anche dai trasporti pubblici, in particolare delle ferrovie.

Va da sé che le strade, visto l’affollamento, rischiano di diventare un luogo ancora più pericoloso del passato. L’Istat rende ancora più evidente il quadro presentato4. L’anno scorso i dati legati agli incidenti stradali sono risultati tutti in crescita rispetto a quelli del 2020, con numeri quali: 151.875 incidenti (+ 28,4%), 204.728 (+ 28,6%) e 2.875 decessi (+20%). E pensare che c’è chi costruisce le sue campagne elettorali invece contro la minaccia mortale delle droghe5, le quali, sono state responsabili, per il 2021 di 293 morti.

Alla fine, i numeri sono utili solo a mostrare la realtà dei fatti e cercano anche di contenere la retorica che sale violenta di fronte ad eventi tragici che non possono essere pensati stupidamente come delle fatalità. Non lo sono le conseguenze di smottamenti legati a condoni e consumo di suolo scriteriato. Non lo sono le vittime di incidenti stradali; vite stroncate mentre cercano di vivere al meglio: andando al lavoro, tornando a casa, cercando di curarsi.

L’Italia deve essere un paese normale in cui se piove o se si viaggia in ambulanza o semplicemente si lavora non si deve correre il rischio di diventare né degli eroi, né delle vittime.

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